In un contesto macroeconomico e geopolitico a “tinte fosche”, si riunisce oggi il Comitato Direttivo della BCE. L’esito della riunione sembrerebbe scontato, con la conferma che anche per l’area euro è finito il tempo del “denaro facile”: affermazione, peraltro, piuttosto relativa, se è vero, come sembra, che il rialzo, che dovrebbe avvenire a luglio, il 1° dopo ben 11 anni, sarà dello 0,25%, con i tassi che, quindi, continueranno a rimanere in territorio negativo almeno sino al prossimo settembre, quando un 2° rialzo, sempre dello 0,25%, li porterà a zero, con qualche analista (come Frederik Ducrozet, capo analista di Pictet) che azzarda un 3° rialzo entro la fine dell’anno. A differenza della FED, da tempo impegnata a combattere l’inflazione, la Banca Centrale Europea dovrebbe continuare ad acquistare, almeno per qualche mese, titoli governativi: ma questa potrebbe essere la sorpresa di oggi, vale a dire l’annuncio che, contestualmente al rialzo di luglio, terminerà anche l’acquisto di titoli. Cosa, peraltro, che troverebbe giustificazione nel fatto che oggi l’inflazione, in Europa, è più alta di quella che si registra negli USA: le proiezioni parlano del 7% vs il 5,9% degli USA.
L’incontro di ieri sera a Parigi tra Macron e il nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi, al di là di confermare una forte identità di vedute dei 2 Paesi su molti temi, va anche nella direzione di arrivare in tempi brevi alla definizione, da parte della BCE, di uno “scudo” sugli spread che possa proteggere i Paesi più esposti, come il nostro, dal rischio di un ritorno della speculazione. Sino a quando la BCE, infatti, comprava titoli pubblici in abbondanza (basti pensare che oggi il debito pubblico italiano è per quasi il 30% in mano alla Banca Centrale e ad altre Istituzioni italiane), questo era un fattore di “stabilità”: venendo meno, ci potremmo trovare, con le elezioni politiche della prossima primavera, nuovamente in “balia degli eventi”, che per noi sarebbero, più o meno, sempre gli stessi: l’impossibilità di avere un governo stabile, guidato da un leader politicamente forte, con una maggioranza solida. Salvo imprevedibili sorprese dell’ultimo momento, certamente non sarà Draghi a prendere le redini: anche perché, nel caso lo fosse, sarebbe probabilmente l’ammissione di un’emergenza politica e istituzionale ancora più grave di quanto si possa pensare, con conseguenze pesantissime sulla nostra credibilità internazionale. E il nostro Paese non può certo permettersi il ritorno a livelli di spread del 4 o del 5% (tradotti, 400-500 bp, oggi siamo a 210 bp): ecco perché assume maggior importanza un “patto” Macron-Draghi in grado di indirizzare le decisioni di una BCE a trazione Francia-Germania e Italia.
La precarietà del contesto economico, per chi avesse qualche dubbio, viene confermata anche dall’Ocse, che, dopo la Banca Mondiale, ha rivisto al ribasso il PIL globale, portandolo al 2,5% e all’1,2% per l’anno prossimo, quando, solo a dicembre, lo stimava rispettivamente al 4,6% e al 2,6% (per l’Eurozona si prevede il 2,5% e l’1,6%).
C’è, poi, sempre più urgente da affrontare, la situazione legata alle materie prime.
Se il 6° pacchetto di sanzioni ha, in parte, chiarito gli aspetti relativi alle materie prime energetiche, rimane da definire il da farsi sulle forniture di grano e di altri cereali, di cui, come noto, Russia e Ucraina sono tra i principali esportatori mondiali. Con la mediazione della Turchia (peraltro Paese non neutrale e, anzi, non così ostico a Putin: ricordiamo che non ha votato contro le sanzioni), si sta cercando un difficile accordo per far “uscire” il grano dai porti ucraini sul mar Nero. Il principale problema è dato dallo sminamento delle acque portuali (mine depositate soprattutto dalla marina militare ucraina per impedire l’attacco della flotta russa), con la creazione di “corridoi” che permettano il transito dei convogli di navi mercantili. Ma, altrettanto importante, si pone il tema dei controlli: chi verifica, e quanto tempo occorre, che le navi trasportino effettivamente grano e non armi, per esempio? E che garanzie può fornire la Russia che quei “corridoi” non vengano utilizzati per entrare nei porti dell’Ucraina? Senza contare che attualmente i depositi sono pressochè pieni, per cui, con l’arrivo del nuovo raccolto (anche se, ovviamente, in forte diminuzione vista la guerra), diventa indispensabile liberare spazio. Insomma, l’opera per l’Onu (tutta l’operazione avverrebbe sotto il suo controllo) non appare delle più semplici, con tempi, evidentemente, non così brevi.
Questa mattina troviamo le borse asiatiche piuttosto nervose: solo Tokyo chiude in territorio, anche se molto marginalmente, positivo, mentre gli indici della Great China fanno segnare ribassi rispettivamente dello 0,75% Shanghai e dell’1,13% Hong Kong.
Futures in moderato calo, più frazionali a New York (- 0,20%), mentre in Europa indicano partenze in ribasso per gli indici intorno a – 0,40/50%.
Rifiata il petrolio, dopo giorni di continua crescita: questa mattina il WTI fa segnare una moderata riduzione dello 0,36%, livello comunque non sufficiente per riportarlo sotto i $ 121 (121,79).
In caduta, invece, il gas naturale targato Usa, che tratta a $ 8,263 (- 5,28%).
Si mantiene a $ 1.852 invece l’oro.
Spread a 208,6 bp, per un rendimento del BTP sempre intorno al 2,30%.
Treasury al 3,03%.
Leggero recupero dell’€, con €/$ a 1,0713.
Bitcoin debole (– 0,73%) ma sempre sopra i $ 30.000 (30.338).
Ps: giornata difficile ieri all’Europarlamento. Era in discussione il pacchetto sul Green Deal, il progetto che dovrebbe prevedere le emissioni zero, in Europa, per il 2035. Dopo una giornata caotica, solo all’ultimo è stato trovato un accordo per lo stop, dal 2035, alla produzione di autoveicoli a benzina e diesel, salvo poche eccezioni per i produttori di auto sportive (come la Ferrari). Insomma, la transizione verde, per quanto tutti ne dichiarino l’imprescindibilità, sembra non facile da attuare.